Donne – Guerra

15 Aprile 2015
DARPS, Roma

guerra! sostantivo maschile plurale.
Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna…

Manifesto del Futurismo, F.T. Marinetti – 9 febbraio 1909

Presso la sede di DARPS, il 15 aprile 2015, si svolge l’incontro Donne-Guerra appuntamento del ciclo Conversazione a partire dalle immagini.

Violenza, oppressione, sessualità, potere, guerra, femminicidio: parole che si intrecciano e che rimandano l’una all’altra. Un ventaglio di opere di artiste contemporanee ci permette di affrontare la complessità di questi temi. I lavori scelti ci guidano nello scandaglio delle rappresentazioni delle sue troppe forme e strategie di resistenza.

Boushra Almutawakel, Ghada Amer, Fiona Banner, Rossella Biscotti, Monica Bonvicini, Claire Fontaine, Regina José Galindo, Mona Hatoum, Emily Jacir, Ayesha Jatoi, Magdalena Jetelová, Naiza H. Khan, Barbara Kruger, Maja Lin, Loredana Longo, Shirin Neshat, Rokhshad Nourdeh, Yoko Ono, Ulriche Rosembach, Marta Rosler, Doris Salcedo, Lydia Schouten, Nancy Spero, Kara Walker, Brigitte Ziegler

Ketty La Rocca

Le Mie Parole (2) My Words, 1973
Drawing on photo. Courtesy of Kadel Willborn, Düsseldorf

A Proposito di Nuovi Studi su Ketty La Rocca

di Pasquale Polidori

Premessa

Il testo che segue è la traccia del mio intervento alla presentazione del volume Ketty La Rocca. Nuovi studi  (postmediabooks, 2015, a cura di Francesca Gallo e Raffaella Perna). Oltre ai saggi delle due curatrici, nel libro si raccolgono quelli di Ada De Pirro, Elena Di Raddo, Silvia Bordini e una postafazione di Lucilla Saccà. In quella occasione (14 gennaio 2016, Istituto Svizzero, Roma) veniva mostrato il video inedito, conservato negli archivi della Quadriennale, di un’azione svolta dall’artista nel 1973 al Palazzo delle Esposizioni a Roma, con la collaborazione di Giordano Falzoni e dal titolo ‘Verbigerazione’. Sul video, che era stato riversato e reso disponibile dopo un lungo periodo di oblio, verteva il mio discorso. La traccia dell’intervento, appuntata prima della visione del video e sulla base della precisa descrizione che ne fa Francesca Gallo nel suo saggio in volume, è stata ampliata nella forma orale, e poi integrata nello scritto, in ragione delle tante suggestioni derivate dalla visione diretta.

Mini relax, 1965-65
Collage su carta, 45 x 30 cm

1.

All’esperienza pedagogica di Ketty La Rocca, il lavoro di maestra alle elementari che ne precede e inizialmente motiva la scelta artistica, è dedicata l’apertura del saggio di Ada De Pirro. Vi si trovano riportate parole dell’artista che evidenziano quanto quella esperienza sia stata fondamentale nell’avvio a una ricerca più apertamente estetica e progressivamente sganciata da motivazioni didattiche, che si manifesterà negli anni del collage e della Poesia Visiva.

Intanto, fare la maestra ha consegnato l’artista a una posizione eccentrica rispetto alla consueta e tradizionale formazione accademica degli artisti, assicurandole un punto di vista originale, una scomoda visuale critica, almeno in rapporto all’immagine: cosa è un’immagine, cosa essa vuol dire, come si tratta una immagine e come essa tratta noi. L’immagine, tradizionalmente, gli artisti la creano, la ‘fanno’; la maestra klr invece, come sappiamo, è interessata a immagini pubblicitarie già disponibili, proprio per la loro disponibilità, per il loro già esserci, al di là di una creazione che, lungi dall’essere individuale, è sempre sociale e ideologica; cioè si tratta sempre di immagini parlanti1.

i cattivi ti chiedono: dipingevi prima? e tu allora dici di no, che non facevi niente, che ‘avevi altri interessi’ ottimo! ma poi, non sai come, ti scappa: facevo la maestra: orrore!! e i cattivi: come? insegnavi a leggere ai bambini…”

Inoltre, riflettere sul mestiere di insegnante ha posto l’artista davanti a quesiti di natura schiettamente politica riguardo al linguaggio e alla comunicazione, ovvero la questione del rapporto tra la propria soggettività e i modelli, culturali e sociali, a cui essa si ispira e si conforma:

il problema a cui sono di fronte, sia per la composizione scritta che per quella pittorica è questa ormai ostinata fedeltà dei ragazzi ai modelli, agli schemi che hanno assorbito e dai quali dovrebbero uscire.”

2.

‘insegnare’ significa letteralmente imprimere segni nella mente. Dalla radicale assunzione di questo significato, proviene il senso di responsabilità che anima il lavoro della maestra klr, la quale accetta di riconoscersi in quel ruolo solo a condizione di poter fornire gli studenti di strumenti critici con i quali sottrarsi a un apprendimento passivo dei codici dominanti. Il problema è etico e linguistico nello stesso tempo, e in questo intreccio sta il punto di contatto con le posizioni del femminismo più attivo nel rifiuto di codici storicamente costruiti sull’esclusione.

Indirizzata al piano politico e formativo, sottratta alla pura speculazione filosofica, la consapevolezza etica del linguaggio è qualcosa di assolutamente moderno che klr dimostra di cogliere a fondo, al punto da far sfociare l’esperienza didattica in una piena ricerca artistica. Sapere, cioè, che il linguaggio non è innocente e che attraverso la nostra aderenza al linguaggio avviene un addomesticamento del pensiero e del comportamento. Da cui a fatica si torna indietro, o ci si libera. Sbarazzarsi di una lingua o di una immagine, di un codice ideologico, non è cosa da niente. Uno degli esiti di questo percorso saranno infatti le ‘craniologie’, radiografie di una testa in cui dimorano pugni chiusi e l’ossessiva ripetizione di una parola: ‘you’; ciò che si imprime nella mente come un seme estraneo. Un’immagine tutt’altro che rassicurante.

Craniologia, 1973
Collage su carta, radiografia su plexiglass e inchiostro, 70 x 50 cm

3.

Per klr l’apprendimento è pericolosamente un processo di remissione della propria libertà e di resa all’ideologia dominante. Ma è essenziale stabilire che per klr questo confronto con la lingua non è aggirabile: anche quando, più tardi, sembrerà indicare una strada pre-verbale alla comunicazione (la lingua dei segni, la mimica del volto e delle mani), questa strada è imbevuta di parole, siano pure le frasi senza senso, o le filastrocche (lingua/suono) che accompagnano il libro fotografico In principio erat, per non parlare dei titoli delle opere e delle dichiarazioni teoriche che argomentano la scelta stessa del linguaggio del corpo come negazione della lingua. (In verità, più che di linguaggio del corpo, occorrerebbe parlare di un linguaggio/corpo, ovvero di una comunicazione che, verbale o mimica che sia, aspira a una certa concretezza, materialità, visibilità.) Seguendo la ricerca di klr, sembra che la sola possibilità che abbiamo è quella di aprirci una strada critica all’interno della lingua: fare i conti con le sue strutture e le sue imposizioni ideologiche, le stesse che si vuole rigettare.

Si tratta infatti di una battaglia, nella quale le armi sono certamente le forbici e la colla, ossia il ritaglio e il riposizionamento dell’immagine, della parola e del significato, nel contesto di una pagina / quadro che priva l’espressione linguistica ideologica dei suoi contesti originari e la obbliga a una nudità che è asprezza di contorno, ritmo, enjambement, frammentarietà…

Si ritaglia l’immagine come si ritaglia un discorso, dentro l’immagine e intorno ad essa.

4.

Dunque: imparare (= farsi lingua) è inevitabile, ma la strada dell’apprendimento necessita di inciampi e false piste.

Il corpo, a cui è dedicato il secondo saggio del volume (Francesca Gallo), è la pietra d’inciampo su questo sentiero all’interno del linguaggio verbale: il corpo renderà possibile la criticità del percorso. La presenza del corpo (la non troppo muta presenza) è ciò che scombina la regola dei segni.

La foto che accompagna a sinistra l’apertura del saggio, con klr in piedi che ci guarda in silenzio a fianco del segnale stradale alterato, con in alto la scritta ‘engagement’ (= impegno, ingaggio, entrata in guerra), vale come un manifesto.

J, 1970
pvc, 89 x 38 x 11 cm

5.

Scrive Francesca Gallo: “le resistenze nei confronti dei nascenti stereotipi di genere si indirizzano fin dall’inizio verso il corpo, oggetto del contendere e terreno da riconquistare…”. Vale a dire che si entra nel bosco del linguaggio (nell’ideologia) per portare in salvo il corpo.

Ma il corpo che troveremo nel bosco dell’ideologia è a sua volta un ‘corpo semiotizzato’ (p. 46), a cui fa riscontro, in un rovesciamento che è di nuovo un atto di guerra, la messa in corpo del segno, il segno fatto statua nei lavori scultorei che ingigantiscono e concretizzano la lettera alfabetica ‘j’ o ‘i’ oppure le virgole: si riserva al segno linguistico lo stesso trattamento che il linguaggio riserva al corpo, però per contrappasso; tanto il linguaggio smaterializza il corpo, quanto l’artista rende corporeo il linguaggio2.

6.

Fare una statua della parola. Si tratta di un procedimento inverso al destino di Eco nelle Metamorfosi: il linguaggio ha privato Eco del suo corpo, ma in nessun altro modo se non attraverso il linguaggio si potrà ridare a Eco un corpo. Che per forza sarà un corpo linguistico.

In Ovidio si trovano intrecciate le due storie di Eco e Narciso. Doppia perdita del corpo: una perde il corpo consumato dalla voce; l’altro lo perde riassorbito nell’immagine; una non può che ripetere una lingua non sua; l’altro si catapulta in un’immagine che non gli parla. Si tratta di due tragedie speculari, in cui la fine dei due corpi dà luogo a due separate entità: la voce di Eco, senza immagine né soggettività ma continuamente mossa dal parlare degli altri; il fiore di Narciso, cioè la sua immagine senza voce e che sta al mondo come ciò che resta della storia di Narciso, il segno, poi simbolo, di una vicenda: il fiore di Narciso parla con la sua presenza, ma come unico discorso non ha che la definitiva parabola di se stesso3.

7.

Una delle frecce segnaletiche di klr, la cui fotografia compare a pag. 104 del volume, recita: vasta eco. Vorrei segnalare l’affascinante ambiguità, forse non involontaria, di questo sintagma. vasta eco, oltre che essere una locuzione invariabile, una di quelle espressioni idiomatiche che tanto attraggono chi del linguaggio voglia evidenziare una natura anelastica quasi di corpo fisico, se presa alla lettera significherà la totalizzante espansione di una lingua che ripete se stessa e, nei termini di Ovidio, una crescita smisurata della ninfa Eco, la sua adesione senza limiti alla vastità del paesaggio dove è condannata a vagare. Ma ‘vasta’ era anche il cognome del marito di klr, Silvio Vasta, sposato nel 1956, e secondo le convenzioni anagrafiche del tempo, Gaetana La Rocca era la signora Vasta: forse, seppure per gioco, nel sintagma vasta eco si potrà cogliere in controluce una sovrapposizione tra l’artista Ketty e la ninfa Eco.

Dal momento in cui, 1971
scrittura a macchina e a mano su carta, 27.5 x 18 cm

8.

Materializzazione, sfida del corpo/voce e verbigerazione.

Si rende corporeo il linguaggio non solo attraverso una sua materializzazione volumetrica e concreta (la lettera-scultura, la parola-statua), ma anche attraverso un procedimento di ipertrofia del linguaggio medesimo, come il testo troppo nutrito delle sue stesse strutture verbali, delle sue congiunzioni e snodi e connettivi testuali, fino a renderlo simile a un labirinto a più piani (tra indicativi e congiuntivi) in cui abita il mostro del significato.

Il mostro del significato è un significato senza denotazione ma in apparenza convincente; un senso impazzito che non ha un punto o compimento, non trova agganci in nessuna realtà, o visione, o oggetto, ma che ha qualcosa di seducente nel suo darsi come plausibile. Non indica niente, non allude a niente, non costruisce niente. Ci tiene solo (eppure) avvinti a un filo, in un ‘come se’ che non ha fine. La lingua / statua di se stessa, senza alcuna altra materia o riferimento ad altro.

Un esempio di lingua siffatta è il testo del 1970 di klr che inizia con ‘dal momento in cui qualsiasi…’. Il testo, stampato su tela 75×61 cm, è al centro di un’azione (una lettura) dal titolo eloquente di Verbigerazione che si svolse il 27 maggio 1973 al Palazzo delle Esposizioni di Roma in occasione della X Quadriennale.

Verbigerazione (psich.) ripetizione monotona e continua di parole o frasi senza funzione comunicativa, riscontrabile in alcune forme di schizofrenia

Etimologia: ← dall’ingl. verbigeration, deriv. del lat. tardo verbigerāre ‘chiacchierare’, comp. di rbum ‘parola’ e un deriv. di gerĕre ‘condurre’. (garzantilinguistica.it)

Il video di questa azione, rinvenuto da Francesca Gallo nell’archivio della Quadriennale, mostra al centro e di spalle, di fronte al quadro, Giordano Falzoni, il quale era stato invitato dall’artista a dare lettura del testo ‘dal momento in cui…’, mentre a sinistra, e quasi del tutto fuori campo, sta la stessa klr che lo accompagna nell’impresa, non semplice, di seguire il testo con la voce.

L’azione si risolve in un arduo tentativo di immettere significati in quel testo, riluttante ad ogni significato, e il lettore fallisce il suo scopo nonostante il sostegno offerto dall’artista.

9.

Il testo ‘dal momento in cui…’ è un testo che lascia senza fiato chiunque tenti di leggerlo seguendone la banderuola del senso. Si tratta anzi di un testo che non prevede il respiro, né un tentativo di umanizzazione, di personificazione. È la vendetta di Eco: una lingua che risuona solo di se stessa; un’acqua stagnante che puzza del suo stato immobile e dell’assenza di tensione dialogica, come di un qualsiasi esito, o andare verso.

dal momento in cui qualsiasi procedimento presuppone da un punto di vista pratico un’esigenza di carattere concreto accettabile nell’ambito di una prospettiva disgiunta da considerazioni parziali in un campo così vasto che inevitabilmente trova un’affermazione non del tutto pertinente e specifica tanto che in una visione di aspetti non immediatamente…’

10.

La performance di klr che guida Giordano Falzoni nella lettura del testo ‘dal momento in cui’, così come descritta da Francesca Gallo (p. 64), è illuminante. Nel saggio si evidenziano da un lato la fatica di Falzoni alle prese con il materiale insensato e dall’altro il ruolo docente di klr, che “lo incoraggia, seguendo talvolta con il dito il testo, come a sorreggere e guidare lo sforzo del partner.”

Infatti, Falzoni, da uomo di teatro, cerca di interpretare il testo, di salvarlo dal niente offrendogli un senso attraverso le mutevoli personificazioni di cui è capace una voce allenata alla recita teatrale. Comincia la lettura, a un certo punto fa una voce grave e retorica, poi cambia tono, poi prova a cantare, passa da un registro all’altro, aiutandosi con la finzione e provando a rianimare il testo come si farebbe con una cosa morta o con un vestito di cui non si capisca il verso per infilarlo. Ma non funziona, e ogni tentativo di direzione/senso dura poco. C’è sempre una svolta che rimanda ulteriormente la definizione di un senso. Il personaggio che si vuole immettere nel testo, il soggetto, in realtà ha il respiro spezzato, e il tutto si smorza nel ridicolo e nell’insostenibile zig zag del discorso fantasma.

(Verrebbe da dire: falla finita, Falzoni!)

11.

In questo tandem performativo c’è più di un riflesso da cogliere: (a) la maestra klr che guida il discente gf nell’addentrarsi in una selva cattiva (ma inaggirabile) di parole in cui il linguaggio svela il suo volto più inumano; (b) la donna klr che rivolge lo specchio di un linguaggio oscuro e concettuoso verso la voce dell’uomo gf, essendo quel linguaggio antropologicamente appannaggio del genere maschile, come lo scettro, divenuto inservibile, di un potere che risale alla divisione arcaica tra parola e corpo; (c) l’artista klr che invita lo spettatore gf a diventare attore di un’esperienza assai particolare dell’opera d’arte, non più solo visione ma invece percorso di assunzione di responsabilità estetica; (d) la giocatrice klr che sfida il giocatore gf a scoprire, attraverso la voce, il fallimento semantico del testo, come si scoprono le carte di un gioco linguistico perverso in cui si perde sempre.

Le mie parole e tu?, 1975
Performance realizzata presso la Galleria Nuovi Strumenti, Brescia 1975.

12.

Nel saggio di Silvia Bordini, che chiude il volume, si dà conto da un lato della comunicazione tra klr e Lucy Lippard, occasione per ripercorrere le tappe della breve e intensa ricerca artistica improntata al confronto con il linguaggio; dall’altro dei contatti produttivi, mai esistiti, tra klr e Art Tapes 22 per il video Appendice per una supplica, a proposito del quale l’artista rivendica una posizione di avanguardia in Italia nell’uso della tecnica video. Entrambi i versanti del saggio sottolineano un sofferto senso di estraneità dell’artista tanto ai gruppi politici quanto al sistema di circolazione e permanenza delle opere d’arte.

io che faccio l’arte che è sgradevole, perché la mia non è tanto gradevole, […] a me non mi va di inserirmi in nessun filone né politico ecc. Io faccio un mio discorso..” (klr, conversazione con Verita Monselles)

L’arte che è sgradevole è durata un dozzina d’anni, lasciando un materiale composito e niente affatto assimilato, o ‘sistemato’, nei circuiti e nei dibattiti del tempo, per quanto a klr non fossero mancate occasioni di partecipazione importanti, come la Biennale o la notevole Quadriennale curata da Filiberto Menna, oltre a mostre personali e al coinvolgimento nelle operazioni del Gruppo 70. Il problema non erano le occasioni mancate, quanto semmai il peso di un lavoro che, come tutti quelli realmente sperimentali, hanno poi anche una certa vocazione all’essere acerbi, alla fragilità (anche dei mezzi: il collage, l’azione, il volantino…) e all’incomprensione, che fatalmente si traduce in distrazione e relativa condanna dei materiali all’oblio. La sgradevolezza di quell’arte non è altro che una inadeguatezza rispetto a ciò che nel giro vale come gradevole e accettabile, non solo sul piano delle forme ma soprattutto su quello delle intenzioni progettuali.

Nel caso di klr quelle ragioni erano certo legate al linguaggio, alla critica della comunicazione e a certe tematiche politiche all’epoca assai attuali, e in quanto tali le assicurarono infatti un posto in un dibattito artistico non solo nazionale4. Ma allo stesso tempo, e irriducibilmente, le ragioni e le modalità del fare arte di klr risiedevano nella lingua (italiana), nell’espressione discorsiva e verbale, ossia in una terra al limite dell’arte puramente visiva; un campo di difficile inclusione da parte di un sistema che, allora molto più di oggi, era condizionato, diciamo così, dal mutismo di Narciso.

[Ringrazio Francesca Gallo e Beatrice Peria per la disponibilità a confrontarsi sui temi trattati.]

Pasquale Polidori, gennaio 2016


NOTE

1 Il tema cruciale del repertorio di immagini usato da klr è al centro di una parte del saggio di Raffaella Perna.

2 Nel saggio di Agamben dal titolo ‘La parola e il fantasma’ (in Stanze, Einaudi 1977, 1993) si ripercorre il processo di ‘messa in immagine’ della parola amorosa (fantasmagoria = parlare alla/della/attraverso la visione) nella poesia medievale. Il saggio si apre con una citazione di Baudelaire che recita: les poètes sont idolâtres. I poeti cioè costruiscono idoli, hanno come fine la reificazione della parola in immagine.

3 Narciso inventore della pittura secondo Leon Battista Alberti: Però usai di dire tra i miei amici, secondo la sentenza de’ poeti, quel Narcisso convertito in fiore essere della pittura stato inventore; ché già ove sia la pittura fiore d’ogni arte, ivi tutta la storia di Narcisso viene a proposito. Che dirai tu essere dipignere altra cosa che simile abracciare con arte quella ivi superficie del fonte?”(De pictura).

4 Al rapporto tra klr e la tematica di genere, e anche alla peculiare posizione delle artiste italiane rispetto a un quadro internazionale, è dedicato il saggio di Elena Di Raddo.

Sguardo di donna

Da Diane Arbus a Letizia Battaglia, la passione e il coraggio

di Chiara Trivelli

Titolo e sottotitolo, Sguardo di donna. Da Diane Arbus a Letizia Battaglia la passione e il coraggio, per una mostra a cura di Francesca Alfano Miglietti, che mette insieme più di 250 fotografie di 25 artiste e fotografe nello spazio espositivo della Casa dei Tre Oci, a Venezia, dal’ 11 settembre 2015 al 10 gennaio 2016. Una buona occasione per parlare di donne che fanno e hanno fatto arte. Da Roni Horn a Tacita Dean, da Sophie Calle a Shirin Neshat, da Yoko Ono a Nan Goldin.

RONI HORN
Untitled (Isabelle Huppert) 2005/2007
© Roni Horn, Private Collection, Milano

La mostra ha l’intento dichiarato di “orientare lo sguardo e la mente verso un mondo che parla di diversità, responsabilità, compassione e giustizia”1. L’allestimento è firmato dallo stilista Antonio Marras, che ha utilizzato elementi scenici (vestiti, armadi, cavalle teatrali) presi in prestito dai depositi del Gran Teatro La Fenice, per realizzare uno spazio espositivo che si propone come spazio scenico dall’atmosfera al contempo intima e sontuosa, preziosa e familiare, ‘calda’, come a raccontare il dietro le quinte di una dimora storica. Alle bianche pareti del white cube, Marras contrappone pareti color bordeaux per le stanze minori, carta da parati e/o grandi spennelate su quelle degli androni principali. Con tanto di finti segni lasciati dal tempo, saltuariamente accostando, ai quadri delle foto, rettangoli analoghi dipinti sul muro di una tonalità più scura, come se alcuni quadri fossero stati rimossi e ve ne fosse rimasta una traccia fantasma.

TACITA DEAN
Teignmouth Electron, Cayman Brac (underneath) 1999
The artist’s collection
© Tacita Dean courtesy the artist and Frith Street Gallery, London and Marian Goodman Gallery, New York/Paris

Fra le prime opere che incontriamo c’è la sequenza di 5 fotografie di Roni Horn (New York, 1955), che immortalano 5 diverse e altrimenti impercettibili microespressioni facciali dell’attrice Isabelle Huppert. La sequenza fa parte di un progetto più ampio che comprende venti sequenze di cinque foto ciascuna, in ognuna delle quali alla Huppert la Horn ha chiesto di interpretare uno dei suoi personaggi: “in questo modo il suo viso esprime personalità che non esistono nella realtà, ma solo nei film”2, si legge sul pannello esplicativo che accompagna l’opera. La messa in discussione della fisiognomica diventa per un’artista quale la Horn, nota per la sua natura androgina, i cui lavori (fotografie, disegni, sculture e installazioni) giocano sull’ impossibilità del doppio, sullo scarto fra trasparenza e riflesso, sui paradossi dello specchio, strumento per la messa in discussione del concetto stesso di identità. Come gli impressionisti hanno rivelato la natura mutevole e vibrante del paesaggio, al contempo uno e molteplice, così già nella serie fotografica You are the weather (1994-1996), in cui “l’amica Margret viene fotografata in centodieci modi diversi e solo apparentemente ripetitivi”3, la Horn aveva visto in ogni volto un paesaggio mutevole. Uno nessuno centomila. Nelle sue opere, l’identità che si frantuma apre al paesaggio complesso della pluralità.

SOPHIE CALLE
Aujourd’hui ma mère est morte/My mother died today 2013 © Sophie Calle/ADAGP, Paris 2015, courtesy Galerie Perrotin, Paris

Una delle stanze al piano terra è dedicata all’artista britannica Tacita Dean (Canterbury, 1965), per la quale la fotografia è uno dei media attraverso cui sviluppare un discorso complesso sulla soglia fra documentazione e narrazione. La Dean utilizza e riealabora materiale d’archivio – siano essi documenti come foto o film, siano esse storie realmente accadute – per creare nuove narrazioni in cui l’elemento poetico è ancorato al reale. Storie dimenticate o marginali che diventano storie esemplari, potenti, attraverso la loro riscrittura come immagini. Nella mostra Sguardo di Donna sono presentate alcune foto dalla sua Teignmouth Electron Series. La serie fa parte di un corpus di opere intitolato Disappearance at sea (progetto a cui La Dean lavora dal 1996)eracconta/testimonia la storia di Donald Crowhurst, commerciante inglese in difficoltà economiche che decise di prendere parte alla prima edizione del Golden Globe Race nel 1968 pur essendo un velista dilettante e senza esperienza. La gara prevedeva una regata in solitaria intorno al mondo senza scalo, ma l’imbarcazione di Crowhurst, il trimarano Teignmouth Electron, si rivelò ben presto un’imbarcazione non adatta all’impresa. Ciononostante Crowhurst non comunicò all’esterno le sue difficoltà, al contrario costruirì un vero e proprio inganno comunicando false posizioni alla giuria. Crowhurst non fece mai ritorno. Il suo Teignmouth Electron fu trovato abbandonato alla deriva al largo delle isole Bermude circa 9 mesi dopo il giorno in cui Crowhurst era salpato, venne trainato in Giamaica e abbandonato su una spiaggia dell’isola di Cayman Branc. Ed è qui che Tacita Dean lo ritrae, le sue foto raccontano la figura di Donald Crowhurst attraverso l’immagine, nitida e al contempo remota, del relitto della sua barca abbandonato sulla spiaggia. Ed è impossibile non pensare il riferimento alla tragica, tormentata figura di Bas Jan Ader (1942-1975), artista olandese che morì disperso in mare durante una traversata in solitario dell’Atlantico, concepita come parte di una performance intitolata In Search of the Miraculous. Riscoperto a partire dagli anni Novanta, Bas Jan Ader è diventato mito e figura dell’artista contemporaneo, del performer che non soltanto segue un ideale estetico ma incarna e paga sulla propria pelle la scelta radicale di fare arte, intesa come esperienza profonda di conoscenza fino al limite ultimo di sacrificare ad essa la propria stessa vita. Oltre la separazione di arte e vita, oltre la contemplazione romantica dell’uomo solo davanti al mare (Caspar Davis Friedrich, Viandante sul mare di nebbia, 1918), il senso di impotenza dell’uomo di fronte all’infinito, lungi dall’essere percepito come dolce naufragare, nell’opera della Dean si tramuta in una sfida destinata a fallire per uomini soli e senza fama, la cui scomparsa segna al contempo e paradossalmente la loro comparsa al mondo. È nel loro scomparire che queste forme di vita appaiono, vengono rivelate. E’ nella loro scomparsa, la loro potenza. Bella la citazione della Dean riportata ad accompagnamento dell’opera: “Niente è più spaventoso di non sapere dove stai andando, ma poi di nuovo nulla può essere più soddisfacente che constatare che siete arrivati da qualche parte senza un’idea chiara del percorso”4.

SHIRIN NESHAT
Stories of a martyrdom (From the series Women of Allah) 1994
Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino. Photo by Cynthia Preston
© Shirin Neshat, courtesy the artist and Gladstone Gallery, New York/Brussels

Sempre sulla questione del rapporto fra fotografia e narrazione, nello specifico fra fotografia e scrittura/testo, uno dei confronti interessanti proposti dalla mostra è quello fra l’opera dell’artista francese Sophie Calle (Parigi, 1953) e l’iraniana Shirin Neshat (Qazvin, 1957). Artiste distanti fra loro per provenienza e aspirazione, l’una definita “un’ artista in prima persona”5, l’altra invece che sembra porsi come portavoce delle istanze di un mondo, quello delle donne islamiche, entrambe espongono un corpo inteso come costrutto culturale, corpo su cui si iscrive una storia, corpo inscindibile dal linguaggio. Alla serie autobiografica True Stories, Sophie Calle aggiunge ‘10 storie’ già realizzate e raccolte sotto il titolo The Hausband. Si tratta di dieci ‘coppie’, ciascuna costituita da una fotografia e un testo, attraverso cui la Calle propone dieci momenti della storia di una relazione, la sua relazione con un uomo. Dal rapporto col padre a quello con gli amanti e il marito. Nella mostra Sguardo di Donna, sono esposti due di questi momenti: al primo piano, quasi nascosto, il ‘capitolo’ The Divorce; mentre al secondo piano, nella stessa stanza dove sono esposte le fotografie della Neshat, il ‘capitolo’ Amnesia. Accanto ad esso, un’opera del 2013, Aujourd’hui ma mère est morte/My mother died today. Ne Il Divorzio, la fotografia mostra un uomo senza volto nell’atto di urinare aiutato da mani femminili. Il testo sopra la foto inizia dichiarando ‘nei miei fantasmi, nelle mie fantasie, sono io l’uomo’6;continua dunque raccontando quello che era diventato un rituale di coppia, lei che tiene in mano il pene di lui mentre urina. La foto è stata scattata in studio, la situazione ricostruita su richiesta dell’artista, come ‘souvenir’ della coppia nel giorno della firma del divorzio. In Amnesia, l’artista dichiara di non ricordare il colore degli occhi e l’aspetto del pene dei suoi amanti; la foto mostra un corpo maschile, di nuovo senza volto, che cela il proprio sesso. Il testo continua raccontando che gli sforzi compiuti dall’artista/moglie (‘épouse’) contro l’amnesia, l’hanno condotta infine al risultato ironico di ricordare solo il colore degli occhi di lui (ma non l’aspetto del suo pene). L’ironia della Calle sembra rivolgersi con disinvoltura e distacco verso i truismi della psicanalisi 7… In Aujourd’hui ma mère est morte, la Calle torna sul tema della madre e quello ricorrente della morte della madre. La foto mostra verticalmente una scultura di donna dormiente sul prato. Il testo, scarno ed essenziale, riporta un rituale privato destinato ad estinguersi: l’annotazione sul diario della morte della propria madre, tradizione familiare di cui l’artista è l’ultima depositaria in quanto senza figli.

La Calle costruisce le sue storie accostando fotografia e testo, realizzando libri e installazioni in cui quest’accostamento costituisce l’unità narrativa della struttura del racconto. Ogni unità è costituita da una fotografia e un testo, è una coppia. Ogni coppia si configura come il microracconto di un rituale performativo in cui l’artista è sulle tracce dell’altro, in cui l’altro, e nello specifico il maschile, viene seguito, investigato e puntualmente mancato. La Neshat integra invece il testo nella fotografia, il rituale nell’atto stesso dello scrivere, la calligrafia. Le sue fotografie incarnano l’altro. Mostrano per lo più donne identificabili come musulmane perché indossano il chador, l’hijab, le vesti imposte dalla regola/tradizione islamica, con la pelle dei frammenti di corpo che la religone autorizza siano visibili, il viso, le mani, i piedi, ricoperta di scrittura parsi, la calligrafia persiana. Queste sono le parti del corpo che tradizionalmente le donne islamiche si tatuano con motivi geometrici e/o floreali in occasione di cerimonie e feste, e in particolar modo in occasione del matrimonio, quando al tatuaggio all’henné, l’unico permesso dall’Islam perché di origine naturale e non permanente, viene dedicata un’intera giornata, essendo praticato non solo come abbelimento del corpo ma perché considerato di buon auspicio, un vero e proprio rito, volto a sprigionare/rivelare la sensualità/fecondità della sposa. Su questi frammenti di corpo, iscritti sulla loro pelle, nelle opere della Neshat, non vi sono tuttavia fiori o abbellimenti, ma “frammenti di poesie persiane riguardanti temi come l’esilio, l’identità, la femminilità e il martirio, o ancora parole e dichiarazioni di scrittrici femministe iraniane quali Tahereh Saffarzadeh, Forugh Farrokhzad, Parvin E’tesami”8. La Neshat interviene sull’immagine tradizionale della donna islamica, e in particolare iraniana, destabilizzandola, rendendola marcatamente inquietante, un’immagine fallica. Nelle sue foto, le donne appaiono spesso armate, i veli celano pistole, paventando così il riscatto, il dolore e il terrore di donne senza uomini, questo il titoto del fim, il suo primo lungometraggio, che alla Neshat è valso il Leone d’argento per la miglior regia alla Mostra del Cinema di Venezia nel 2009. Vissuta in Iran fino all’età di 16 anni, la Neshat ha trascorso gran parte della sua esistenza a New York. Con lo sguardo strabico di chi è fuori e dentro una cultura d’appartenza, la Neshat è riuscita a rendere l’estraneità e la rivalsa (nella percezione comune) di donne alla ricerca di sé: pistole puntate.

YOKO ONO
Dream: Project In Una Parola 2009.
Photo by Daniele Nalesso
©Yoko Ono, courtesy Fondazione Bonotto, Molvena
NAN GOLDIN
Trixie on the cot, New York City 1979
© Nan Goldin, courtesy the artist and Guido Costa Projects, Torino

Altro confronto inedito proposto dalla mostra quello fra le fotografie di di Yoko Ono (Tokyo, 1933) e quelle di Nan Goldin (Washington, 1953). Due artiste che rappresentano due generazioni, due New York: quella yippie degli anni ’60 e ’70, e quella degli anni ’80, con i suoi eccessi, le sue derive punk, segnata irrimediabilmente dal conclamarsi di una malattia fino allora sconosciuta, l’AIDS, e con essa dalla battuta d’arresto di quella che sembrava essere stata conquistata come una libertà senza limiti, la libertà sessuale. Per entrambe le artiste, la fotografia è documento, sul confine sottile di vita vissuta da una parte, di perfomance e/o interventi artistici dall’altra. Se le foto della Goldin, “sature di colore”9, sembrano raccontare la discesa negli abissi dell’ambiente della controcultura americana, un mondo marginalizzato e stigmatizzato dalla società puritana e perbenista come maledetto, saturo di droghe e alcol, popolato da prostitute, drag queen e gente emaciata, quelle in bianco e nero della Ono riconducono all’origine e ai primi anni della controcultura, riconducendo al contempo l’idea di tragressione al suo significato al di là di qualsiasi idea di degenerazione. In mostra sono esposte le celebri foto che la ritraggono con John Lennon in occasione del loro Bed-in for Peace, una sorta di ‘sit-in a letto per la pace’. Quando si sposarono, nel 1969, Lennon e la Ono decisero infatti di accogliere i giornalisti 12 ore al giorno per una settimana in una lussuossa suite di hotel. Disattendendo le loro aspettative voyeristeche, giocando e ponendo in questione la definizione stessa di ‘sensazionale’, i giornalisti si ritrovarono di fronte i due novelli sposi seduti a letto in pigiama a “parlare d’amore e di pace universali”10. E ancora, realizzato a 40 anni di distanza da quella performance, nell’anno in cui la Ono ha ricevuto il Leone d’oro alla carriera alla 53° Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, la mostra propone alcune delle fotografie che documentano Dream: Project In una parola (2009). Il progetto In una parola, di cui Yoko Ono è stata la prima interprete, a cura di Fuoribiennale e Archivio Bonotto con R’evolution Life, prevedeva che “grandi esponenti della contemporaneità – dal mondo dell’arte a quello della musica, della moda, della letteratura e dell’architettura””11 – ‘autografassero’ un manifesto, da distribuire/disseminare su scala nazionale, con su scritta una sola parola a loro scelta. DREAM è stata la parola scelta da Yoko Ono. Nell’ estate del 2009, questa ha campeggiato sui muri e lungo le strade delle maggiori città italiane così come nei piccoli centri,in quella che potrebbe essere definita una campagna di sensibilizzazione pubblica: l’invito a sognare. Torna alla mente, allora, una delle istruzioni contenute in Grapefruit, lo straordinario libro realizzato dalla Ono e pubblicato per la prima volta in Giappone già nel 1964: “A dream you dream alone is only a dream. A dream you dream together is reality””12. In Grapefruit, la Ono ha coniugato la millenaria tradizione degli haiku alle istanze della performance contemporanea, realizzando un “manuale di istruzioni per l’arte e per la vita” 13, che propone non opere d’arte intese in quanto oggetti, ma compone azioni ed eventi potenziali, al contempo divertenti e poetici, la cui natura ha a che vedere con il desiderio. Passato alla storia come uno dei primi esempi di arte concettuale, Grapefruit è un’operazione che rimanda allo spettatore una sua qualsivoglia risoluzione. Come non pensare allora, soprattutto, a Imagine, la celeberrima canzone pubblicata nel 1971 da John Lennon, il quale ha ammesso di aver tratto spunto proprio da Grapefruit nel comporla. In un’altra delle istruzioni contenute in quest’ultimo, intitolata Cloud piece e datata primavera del 1963, Yoko Ono scriveva 14:

Imagine the clouds dripping.
Dig a hole in your garden to
put them in.

In conclusione, citiamo le opere delle due fotografe a cui rimanda il titolo della mostra, a segnare un arco, piuttosto che temporale, sopra il vasto ambito della fotografia sociale, esempi di passione e coraggio anticonformista e anti-omologazione. Diane Arbus (New York, 1923-1971), di origine borghese benestante, in un’epoca in cui l’emancipazione delle donne era ancora lontana, nel 1957 lascia lo studio di fotografia di moda fondato con il marito e sceglie di rivolgere il suo sguardo altrove. Abbandona il rassicurante ambiente d’origine e le sue convenzioni, per condursi fra miseria e squallore della New York più povera. Nota come ‘la fotografa dei freaks’, i suoi scatti restituiscono potenza e poesia all’immagine di chi viene comunemente marginalizzato come ‘anormale’. E Letizia Battaglia (Palermo, 1935), le cui fotografie denunciano violenza e brutalità dei delitti di mafia, ma anche raccontano la dignità, il dolore e l’orgoglio del popolo siciliano e delle sue donne.

LETIZIA BATTAGLIA
Omicidio sulla sedia, Palermo 1975
© Letizia Battaglia
DIANE ARBUS
Girl in her circus costume, MD, 1970 © The Estate of Diane Arbus LLC,
courtesy M. & E. Woerdehoff von Graffenried, Paris

In mostra presenti anche fotografie di: Martina BacigalupoYael BartanaMargaret Bourke-WhiteLisetta CarmiLucinda DevlinDonna FerratoGiorgia FiorioZanele MuholiCatherine OpieBettina RheimsTracey RoseMartha RoslerChiara SamugheoAlessandra SanguinettiSam Taylor-JohnsonDonata WendersYelena Yemchuk.


NOTE

(1) In Comunicato stampa della mostra: http://www.treoci.org/files/donne/1_Comunicato_Stampa.pdf
(2) In Brevi storie delle opere in mostra, testi dei pannelli esplicativi: http://www.treoci.org/files/donne/4_Testi_pannelli_Storie_25_Autrici.pdf(3) Ibidem.
(4) Ibidem.(5) Alfred Pacquement, citato in Martine Delvaux, Sophie Calle: Follow me, in Intermédialités : histoire et théorie des arts, des lettres et des techniques / Intermediality: History and Theory of the Arts, Literature and Technologies, numero 7, primavera 2006, p.154. Consultabile on-line all’indirizzo:http://www.erudit.org/revue/im/2006/v/n7/1005522ar.pdf(6) Traduzione mia: nella versione inglese dell’opera, Sophie Calle scrive “In my fantasies, I am a man”, mentre in quella francese “Dans mes fantasmes, c’est moi l’homme”.
(7) Cfr. Martine Delvaux, Sophie Calle: Follow me, in Intermédialités : histoire et théorie des arts, des lettres et des techniques / Intermediality: History and Theory of the Arts, Literature and Technologies, numero 7, primavera 2006, pp.151-156.
(8) In Brevi storie delle opere in mostra, testi dei pannelli esplicativi: http://www.treoci.org/files/donne/4_Testi_pannelli_Storie_25_Autrici.pdf
(9) Ibidem.
(10) Ibidem.
(11) In Comunicato stampa della Fondazione Bonotto: http://www.fondazionebonotto.org/it/events/2.html
(12)  InYoko Ono, Grapefruit: A Book of Instructions and Drawings by Yoko Ono (1964), Simon & Schuster, New York 2000.
(13) Questo il sottotitolo del libro nella sua traduzione italiana: Yoko Ono, Grapefruit. Istruzioni per l’arte e per la vita, Mondatori, Milano 2005.
(14) Ibidem.

Donne – miti

Donne, Arte e Mitopoiesi: la ricchezza dei miti come immaginario femminile da reinterpretare 

4 Novembre 2015
DARPS, Roma

Presso la sede di DARPS, il 4 novembre 2015, si svolge l’incontro Donne-Mito appuntamento del ciclo Conversazione a partire dalle immagini.

Molte artiste moderne e contemporanee hanno indagato le diverse trasformazioni che hanno investito la rappresentazione della donna all’interno dell’immaginario mitologico.

Queste ricerche iconologiche sono alla base di opere dove è visibile il repertorio di mascheramenti che la cultura patriarcale ha messo in atto sull’immagine femminile per interi millenni. Saperle riconoscere attribuisce nuova consapevolezza al nostro sguardo.

Marina Abramović, Gian Lorenzo Bernini, Louise Bourgeois, Judy Chicago, Pisanello, Raffaello Sanzio, Rebecca Horn, Barbara Kruger, Nancy Spero, Kiki Smith, Elisabeth Vigée Le Brun, Franz Von Stuck, Kara Walker, sculture, bassorilevi, glittica dell’arte sumera, egiziana, minoica, greca, romana, paleocristiana, barocca.

Camille Norment, Rapture

Per DARPS, Chiara Trivelli ha intervistato l’artista, musicista e compositrice Camille Norment (USA, 1970), e documentato la performance Rapture in occasione del finissage della 56° edizione della Biennale d’Arte di Venezia, presso il Padiglione Nordico ai Giardini. 

Il progetto proposto per il Padiglione dalla Norment, intitolato Rapture, letteralmente “rapimento/estasi”, è un progetto in tre parti: comprende un’installazione, una serie di performance e una pubblicazione, anch’essa in tre parti. Il progetto – spiega la Norment – si basa sull’idea di vibrazione/eccitazione sonora. È un lavoro sul suono e la sua relazione col corpo e la società.

L’installazione della Norment dialoga con l’essenzialità e il rigore del Padiglione Nordico, progettato dell’architetto norvegese Sverre Fehn alla fine degli anni Cinquanta. La Norment ha rielaborato la continuità interno/esterno del Padiglione, intervenendo sui confini/vetrate dell’edificio, che con la Norment dischiudendosi si scompongono, si moltiplicano, e vanno in frantumi. Infrangere un limite allude qui alla fisicità del suono, agli effetti possibili delle vibrazioni sonore. L’installazione della Norment è infatti essenzialmente un’installazione sonora. “La musica vive nell’intervallo tra la poesia e la catastrofe”: la Norment cita e si ispira a Arne Nordheim, compositore e musicista sperimentale norvegese recentemente scomparso. Nella scultura sonora della Norment, il suono non è inteso come un materiale da scolpire, un materiale plastico, ma come lo stesso scalpello. Se il suono, agendo a livello psicosomatico, è uno strumento di trasformazione e controllo sociale, nella dimensione psicoacustica ricreata dalla Norment il suono con le sue basse frequenze, alternato a sospiri e a voci disarticolate, riconduce l’emozione alla sua dimensione viscerale, a quell’eccitazione che è prima di una sua qualsivoglia connotazione come piacevole o spiacevole: pelle d’oca, semplicemente. Ai brividi del corpo corrisponde l’apertura della mente. L’opera della Norment rincorre, ripropone e riattualizza la questione dell’estasi, intesa non come rapimento divino ma in senso materialistico come effetto fisico, manipolabile. Esperienza liberatoria e di emancipazione sociale. La Norment sembra voler condurre lo spettatore verso un’esperienza percettiva che sia al contempo condizione di sospensione dai propri retaggi culturali.

Dell’ installazione fa parte una serie di altoparlanti appesi al soffitto che amplificano le composizioni sonore della Norment. In realtà quello che vediamo sono aste usate abitualmente per campionare il suono in presa diretta. La Norment ha dunque inserito degli altoparlanti all’interno di strutture che abitualmente sono utilizzate per contenere microfoni. Invertendo la funzione input/output (microfono che registra il suono, altoparlante che lo emette), la Norment sembra voler ribadire il rapporto di reciprocità e reversibilità del flusso interno/esterno. La presenza del blimp (della protezione anti-vento attorno al microfono/altoparlante) rafforza, inoltre, nel visitatore, la sensazione di ritrovarsi in un ambiente “scoperchiato”, attraversato e scosso da venti e turbinii di tempesta.

Parte integrante del progetto Rapture è un programma di performance, tra cui una serie di esibizioni del Camille Norment Trio all’interno del Padiglione. Il trio è composto da una chitarra elettrica, un hardingfele (strumento della tradizione folk norvegese, simile al violino), e un’armonica a vetri suonata dalla stessa Norment. La sperimentazione portata avanti dal trio è volta verso un attraversamento dei generi musicali (elettronica, classica e folk), che sia funzionale al recupero e all’affermarsi di una potenza originaria del suono, a prescindere dalla sua appartenenza a epoche e contesti differenti. In particolar modo, lo strumento suonato dalla Norment, la glassarmonica (armonica a bicchieri), uno strumento primitivo, idiofonico, il cui funzionamento è basato sulla frizione di dita, vetri e acqua, ha una sua particolare e controversa storia. Formalizzato e prodotto in serie come strumento di musica classica nella seconda metà del ‘700, quando Benjamin Franklin lo strutturò come vero e proprio strumento musicale disponendo i vetri su un asse orizzontale, l’uso dello strumento venne poi bandito perché ritenuto pericoloso. Avrebbe infatti causato sia in colui che lo suonava sia in coloro che lo ascoltavano allucinazioni e disturbi psichici. Per le sue caratteristiche ipnotiche e per i suoi effetti psichedelici, la glassarmonica è stata utilizzata anche nelle sperimentazioni degli anni Settanta da gruppi musicali come i Pink Floyd.

All’approfondimento sulla ricaduta sociale e sul contesto culturale in cui la ricerca della Norment si colloca, è dedicata la pubblicazione di tre volumi intitolati sempre Rapture, il primo dei quali già disponibile, che raccolgono testi critici, interviste all’artista e documentazione sulla sua opera.

Nel video qui proposto, la Norment affronta infine la questione di genere affermando che questa è ancora oggi un argomento rilevante anche nel mondo dell’arte perché, per quanto il numero delle artiste riconosciute sia notevolmente aumentato, “certamente ancora oggi non si può parlare di uguaglianza”. Questo, secondo la Norment, è stato un anno particolare, per il grande sforzo cosciente di affrontare questioni come quelle della rappresentazione e dell’uguaglianza, non solo nel Padiglione, ma nella progettazione che Okwui Enwezor, il curatore della 56° Esposizione Internazionale d’Arte di Venezia, ha fatto della Biennale nel suo insieme. Un precedente che la Norment si augura possa trovare ulteriore seguito.

Chiara Trivelli

Joan Jonas, They come to us without a word

Video – intervista a Joan Jonas

L’artista statunitense Joan Jonas (New York, 1936), internazionalmente riconosciuta per le sue opere multimediali come pioniera della video e performance art, esprime il suo punto di vista sulla questione di genere, nel mondo dell’arte contemporanea e nella sua opera, in una breve video-intervista di Marica Croce realizzata per DARPS durante i giorni di inaugurazione della 56° edizione della Biennale d’Arte di Venezia.

testo di Chiara Trivelli, riprese di Gabriele Zampieri.

L’artista statunitense  Joan Jonas  (New York, 1936), internazionalmente riconosciuta per le sue opere multimediali come pioniera della video e performance art, esprime il suo punto di vista sulla questione di genere, nel mondo dell’arte contemporanea e nella sua opera, in una breve video-intervista realizzata per DARPS durante i giorni di inaugurazione della 56° edizione della Biennale d’Arte di Venezia. Il video mostra alcune immagini del progetto Joan Jonas: They Come to Us Without a Word, presentato dal Padiglione degli Stati Uniti d’America ai Giardini (Commissario: Paul C. Ha. Commissario Aggiunto: MIT List Visual Arts Center. Curatori: Ute Meta Bauer, Paul C. Ha.), che ha ricevuto per questo un premio speciale dalla Giuria.

L’articolo prosegue riportando la conversazione avuta nella stessa occasione con Anna Daneri, production manager del progetto, che ci ha raccontato assieme a Roberto Dipasquale, responsabile dell’allestimento, le fasi di produzione della mostra e il modus operandi dell’artista.